La qualità negli allevamenti confinati, come in quelli all’aperto, è sia una scommessa che una necessità. Esiste infatti una normativa europea a cui si devono attenere gli Stati membri, “e comunque c’è un trend crescente degli allevatori a mettere in atto misure supplementari a quelle già stabilite per legge per migliorare il benessere animale, in quanto cresce l’ attenzione dei consumatori su questo punto e il mercato ‘premia’ chi le mette in atto” – sottolinea a “Osservatorio Alimentare” Guglielmo Golinelli, titolare dell’azienda agricola Golinelli a Mirandola (Mo) dove si allevano suini destinati alla produzione dei prosciutti DOP. Il disciplinare di produzione della Denominazione di origine protetta, infatti, prevede che le carni utilizzate per i prosciutti debbano essere ottenute da suini nati, allevati e macellati in Italia. L’azienda è dotata di ampi e moderni capannoni e, nello specifico, dispone di una moderna sala parto progettata per soddisfare sia le esigenze di comfort delle scrofe che l’incolumità dei lattonzoli nei primi giorni di vita. Le gabbie permettono ai suini di partorire in tutta sicurezza, mentre ai suinetti di muoversi con tranquillità senza correre il rischio di essere sopraffatti dalle loro mamme. La presenza di lampade riscaldanti, poi, consente ai piccoli di mantenere la giusta temperatura corporea nelle prime ore di vita e durante la stagione fredda.

 

BENESSERE ANIMALE

Dagli anni ’80 il benessere animale è diventato oggetto di attenzione da parte dei legislatori europei che in varie fasi hanno riunito tavoli di esperti di tutti i settori per definire le condizioni minime di benessere negli allevamenti. Agli allevatori è stato indicato di consentire in primis agli animali cinque libertà: libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione, libertà dai disagi ambientali e quindi la necessità di avere comfort e ripari, libertà da malattie e ferite, libertà di esprimere i normali comportamenti della propria specie e libertà dalla paura e dallo stress. Queste libertà devono essere garantite in ogni fase, evitando sofferenze agli animali anche in fase di trasporto e macellazione.

Il rispetto delle norme – commenta Golinelli – è anche nell’interesse dell’allevatore: il benessere animale si traduce in una miglior produzione per l’azienda e comunque ha un importante valore etico, parchè sicuramente l’allevatore ha più piacere a vedere un animale che sta bene e cresce che a vederlo ammalato o in condizioni precarie”.

Noi stiamo molto attenti alla pulizia, igiene e biosicurezza – aggiunge Golinelli – e siamo controllati almeno due volte all’anno sul benessere animale, così come ci sono controlli almeno due volte all’anno sul corretto utilizzo dei farmaci e sulla biosicurezza. La nostra azienda cerca anche di assicurare più spazio agli animali rispetto alla normativa prevista: se per animali fino a 30 kg sono previsti 3 animali per metro quadro, se non ci sono particolari esigenze produttive noi proviamo a tenerne solo due. Le norme stabilite a livello comunitario non sono norme cucite addosso agli allevatori, sono costruite con il contributo di tutte le categorie, dai consumatori ai veterinari. Una delle cinque libertà è quella di far esprimere agli animali i comportamenti della propria specie e quindi anche la voglia di giocare. Per questo noi mettiamo nelle stalle dei nostri suini dei tronchetti di legno per farli giocare con il muso e sgranocchiare la corteccia. Oppure mettiamo dei pezzi di plastica che fanno rumore e con cui gli animali si divertono. Il benessere animale é un equilibrio che deriva da tanti fattori e quando tutti questi fattori vengono applicati la qualità dell’allevamento migliora e si lavora e si produce meglio. Il fatto che l’animale non sia stressato è sicuramente un fattore di miglioramento della qualità della carne”.

 

ALLEVAMENTI ITALIANI SICURI E CONTROLLATI

Sugli allevamenti intensivi c’è spesso una percezione non positiva e ‘dubbiosa’ da parte dell’opinione pubblica scarsamente informata che li considera in genere poco rispettosi del benessere animale, se non addirittura una sorta di ‘lager’ a causa anche di alcuni servizi televisivi orientati al sensazionalismo. Ma la realtà degli allevamenti intensivi italiani, chiediamo a Golinelli, qual è? “E’ una realtà positiva – risponde l’allevatore emiliano – e, in un’ottica di mercato, l’unica che permette al consumatore di avere la carne ad un costo accessibile. Se non ci fossero infatti gli allevamenti convenzionali staremmo come negli anni ’60, quando la carne era riservata ai ceti più abbienti. Ovviamente negli allevamenti intensivi, come negli altri tipi di allevamenti, è garantita la sicurezza alimentare dal Ministero della Salute, dai controlli dell’Istituto zooprofilattico e dei Nas. E’ comunque un settore controllato, non è un settore lasciato a se stesso. Poi gli scandali sono dovuti al singolo caso, il settore è sotto stretto controllo ma, come in tutte le cose, ci sono persone che lavorano bene e persone che lavorano male. E magari su un caso poco virtuoso si montano servizi tv ad effetto che impressionano negativamente la gente, salvo poi vedere che verità c’è sotto”.

 

ANTIBIOTICO-RESISTENZA

Ma ci sono altre false accuse che incombono sul settore zootecnico, per esempio che la carne possa essere gonfiata con gli ormoni o che si somministri troppo antibiotico agli animali favorendo il fenomeno dell’antibiotico-resistenza. La verità invece è ben diversa, perché gli ormoni sono vietati in Europa da 35 anni, così come l’utilizzo degli antibiotici a scopo preventivo, vietato in Europa dal 2006. L’antibiotico è somministrato solo per la cura degli animali mediante terapie prescritte da medici veterinari. Il loro impiego deve essere limitato nel tempo e comunque le carni degli animali in cura non possono essere immesse in nessun caso al consumo senza aver rispettato il cosiddetto “periodo di sospensione” che garantisce l’assenza di residui nelle carni. “Il fatto che nelle rilevazioni dei macelli in Italia il residuo di antibiotico sia mediamente sotto lo 0,1% – rileva Golinelli – significa che il settore è controllato e responsabile. Questo vuole dire che sull’argomento c’è attenzione e sensibilità degli allevatori. Del resto usare in modo indiscriminato l’antibiotico non sarebbe né utile né opportuno per l’allevatore perché rappresenterebbe un costo e avrebbe effetti collaterali sulla salute dell’animale”. Il Piano Nazionale di Ricerca Residui attuato dagli ispettori del Ministero della Salute nel 2015 ha evidenziato che solo lo 0,16% del totale dei campioni di carni analizzate presentava residui oltre i limiti relativi alle due categorie di ricerca prese in esame, ovvero il riscontro di sostanze ad effetto anabolizzante e sostanze non autorizzate e medicinali veterinari e agenti contaminanti.

 

SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE

Sull’attività di allevamento pesa anche l’accusa di produrre molto inquinamento da CO2 e di consumare tanta acqua, anche perché la rilevazione dei dati avviene per kg di prodotto. Ma il settore contesta la precisione e la validità di questa rilevazione, osservando che rapportando l’impatto alla frequenza di consumo e alle porzioni suggerite dalle raccomandazioni di salute pubblica, l’impatto medio settimanale della carne risulta allineato a quello di altri alimenti per i quali gli impatti unitari sono minori ma le quantità consumate generalmente maggiori. Del resto le moderne tecnologie hanno aiutato gli operatori del settore zootecnico a porre in essere diverse azioni di miglioramento nel campo della sostenibilità, tra queste si segnalano in particolar modo la zootecnia di precisione e l’utilizzo delle deiezioni per la produzione di biogas. A tal proposito una ricerca Fao ha messo in evidenza come i sistemi di produzione europei siano quelli caratterizzati da minori impatti ambientali per kg di proteina. Ma ci sono anche altri motivi a sostegno della sostenibilità del settore zootecnico. “A differenza di tante altre produzioni umane che producono sostanze non degradabili per l’ambiente – spiega Golinelli – l’allevamento produce solo sostanze degradabili e anche i liquami prodotti nel rispetto dei parametri di leggi relativi alle superfici per capi di allevamento rientrano tranquillamente nel ciclo dell’acqua. In definitiva l’allevamento è molto meno impattante sull’ambiente di altre attività umane, come per esempio la produzione di una maglietta di cotone o di un cellulare. Basti pensare che per produrre una maglietta di cotone ci vogliono 2.500 litri di acqua. Secondo i dati Ispra, gli allevamenti del Nord Italia, la zona con più alto tasso di animali allevati, parliamo di circa 17 milioni di animali, sono responsabili solo per il 10% dell’inquinamento dell’acqua, del restante 90% è responsabile l’uomo”.

 

REDDITO ALLEVATORI IN RIPRESA 

Il settore carni in Italia ha un valore economico di 32 miliardi di euro all’anno, (22 l’industria delle carni, 10 la parte agricola), rispetto ai 192 miliardi dell’intero settore agroalimentare che contribuisce a circa il 10-15% del prodotto interno lordo annuo. Le tre filiere principali (bovina, avicola e suina) generano un fatturato di circa 20 miliardi di euro l’anno (6 mld l’avicolo, 10 mld il suino, 6 mld il bovino), derivanti prevalentemente dall’industria della trasformazione. Mentre le tre filiere si ripartiscono in modo circa equivalente il valore economico complessivo, le differenze si trovano nell’analisi della bilancia commerciale: la filiera bovina importa il 40% circa del fabbisogno complessivo, la filiera avicola è pressoché neutra, la filiera suina importa il 35% della materia prima ma è caratterizzata da una forte esportazione di salumi. Il settore impiega circa 180mila addetti, 80mila nelle carni bovine, 44mila nelle carni suine e salumi e 55mila nelle carni avicole. Il patrimonio zootecnico nazionale consta di 6 milioni di bovini, 9 milioni di suini e 600 milioni di pollame. Gli allevamenti sono concentrati prevalentemente al Nord che raggruppa il 70,3% dei capi bovini, l’87,3% di suini e il 71,5% di pollame. Nel centro-Italia si trovano, rispettivamente, il 7,5%, il 6,3% e il 12,5% degli allevamenti e al Sud il 22,2%, il 6,4% e il 16%. La filiera è stata afflitta per una decina danni, dal 1997 al 2007 secondo i dati Istat, da un impoverimento dei margini di redditività degli operatori ma la situazione ora è migliorata. “Il fatto che non si vedano giovani a intraprendere questa attività significa che le cose non vanno benissimo, pesa la questione dello scarso reddito da attività agricola – osserva Golinelli – Per fortuna negli ultimi due-tre anni le cose sono andate meglio, ora si riesce a sopravvivere. Nel mio campo, l’allevamento suinicolo, ci confrontiamo con il forte import di materia prima da altri Paesi europei dove costa meno e questo danneggia la produzione nazionale. Per fortuna cresce l’attenzione del consumatore verso i prodotti a denominazione e di qualità. Ecco, c’è bisogno sempre più di promuovere questa qualità e incentivare il consumatore a comprare prodotti 100% italiani”.

 

Redazione