La carne rossa è sotto attacco e lo è su più fronti. Richiamando un presunto impatto negativo sulla salute e sull’ambiente, sono in molti a diffondere disinformazione ed allarmismi a riguardo, facendo leva sui consensi che il tema genera.
E così, alcune multinazionali del settore agrifood, hanno deciso che il business su cui puntare sono le alternative vegetali o sintetiche della carne.
Andiamo ad analizzare alcune fake news sulla carne rossa che è possibile incontrare sul web e su alcuni giornali.
“Gli allevamenti inquinano più dei trasporti“
Il settore zootecnico, in Italia contribuisce in totale ai gas serra del 4,6% (report Ispra). È invece del 14,5% sul totale delle emissioni di gas a effetto serra, l’impatto mondiale di tutto il settore zootecnico. A certificarlo è uno studio FAO “Tackling climate change through livestock”.
Pertanto, l’aumento della produzione di metano non è dipeso dalle risaie e dai ruminanti.
Sono, invece, molto aumentate le attività umane che comportano la produzione di questi gas serra e soprattutto il numero di persone che “contribuiscono” alle emissioni di gas climalteranti attraverso un sempre più massiccio sfruttamento dei combustibili fossili, come petrolio e carbone.
Dati alla mano, in Europa tutto il settore agricolo è responsabile del 10,3% delle emissioni di gas a effetto serra, di cui quasi il 70% proveniente dagli allevamenti (metano e protossido di azoto). Questo significa che In Europa, grazie all’efficienza produttiva e all’innovazione tecnologica, gli impatti del sistema zootecnico sono del 7,2%: già oggi la metà delle emissioni mondiali. Il caso italiano è ancora più efficiente: l’ISPRA ha evidenziato che l’impatto del settore agricolo sull’ambiente è pari al 7,1%, di cui 4,6% imputabile al settore zootecnico.
“Servono 15.000 litri d’acqua per produrne un chilo di carne bovina”
In Italia per produrre 1kg di carne bovina servono 790 litri d’acqua, perché l’80-90% di questa ritorna nel suo ciclo naturale. Spesso chi mette in circolazione altre cifre, come l’abnorme quantitativo di 15mila litri di acqua per produrre un chilo di carne, non tiene conto della provenienza e dei diversi tipi di acqua utilizzata. L’acqua presa dalla falda non ha lo stesso impatto ambientale di quella piovana, o di quella di scarico.
In altre parole, al calcolo di 15mila litri di acqua per un chilo di carne ci si arriva se si sommano e quindi non si distinguono i tre tipi di acqua utilizzata: l’acqua «blu», quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali; l’acqua «verde», quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture; e l’acqua «grigia», il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione.
“La carne fa venire il cancro, lo dice l’OMS”
L’OMS, tramite la IARC, l’agenzia che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze, ha analizzato il rischio di sviluppare il cancro in relazione a un consumo eccessivo di carni rosse e trasformate.
La IARC non ha mai affermato che la carne rossa provoca il cancro, ma che un consumo eccessivo di carne rossa e trasformata può̀ contribuire al rischio di un solo tipo tumore (sui 156 conosciuti e classificati): quello del colon-retto.
È la stessa OMS che, sul suo sito, scrive in riferimento «all’eccesso» di tali consumi, e non a un loro consumo in generale. Pur con consumi eccessivi, il rischio relativo sarebbe di circa il 18% per le carni trasformate e del 17% per le carni rosse. Il rischio «assoluto», o reale? Solo l’1%.
Inoltre, ad essere attenzionato maggiormente è il metodo di cottura e non la carne in sé. Metodi di cottura, come il barbecue, possono aumentare i rischi far scaturire amine eterocicliche aromatiche, idrocarburi policiclici aromatici e nitrosammine, composti che inducono mutazioni cancerogene.
Aggiungiamo che la quantità di carne presa in esame dalla ricerca IARC è superiore ai 50 grammi di carne trasformata e 100 grammi di carne rossa al giorno: livelli di consumo notevolmente più alti rispetto a quelli medi italiani (29 gr).
“In Italia mangiamo quasi 80 kg di carne all’anno”
I 79.1 Kg che spesso vengono citati quando si parla dei consumi annui pro-capite di carni e salumi in Italia sono una cifra falsata, perché tengono in considerazione il loro consumo virtuale. Cioè conteggiano anche le parti così dette “non edibili” degli animali quali ossa, cartilagini, tendini e grasso.
Uno studio dell’Università di Bologna, “Consumo reale di carne e di pesce in Italia”, coordinato dal professor Vincenzo Russo e condotto insieme alla Commissione di studio Istituita dall’ASPA (Associazione Scientifica per la Scienza e le Produzioni Animali), mette ordine e restituisce cifre più aderenti al reale.
Il consumo pro capite – basato su tutte le carni e sulla distinzione tra parti commestibili e non commestibili – sarebbe di: 104 grammi al giorno (e non a quasi 215 gr come invece si pensava), equivalenti a 728 g alla settimana e 37,9 kg all’anno, meno della metà di quei 79,1 kg di cui si sente spesso parlare.
Per la sola carne rossa bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità ben al di sotto delle raccomandazioni dell’OMS, che fissano a 100 gr il consumo giornaliero di carne rossa.
“La carne è piena di ormoni e antibiotici”
Il trattamento di animali con ormoni è vietato in Europa da 40 anni (e dal 1988 nell’Ue è vietata l’importazione da Oltreoceano di carni bovine trattate con determinati ormoni della crescita). Da 15 anni è invece vietato negli allevamenti usare antibiotici a scopo preventivo o come promotori della crescita.
Negli allevamenti italiani ed europei la somministrazione di sostanze ad attività ormonale ad animali le cui carni o prodotti siano destinati al consumo umano sono limitati già dal 1981 ad alcuni trattamenti terapeutici e zootecnici.
Vietati anche gli antibiotici senza una prescrizione medico-veterinaria per tutelare la salute dell’animale: il loro impiego negli allevamenti è permesso solo ai fini di cura, terapia e profilassi dell’animale, e possono essere utilizzati esclusivamente antibiotici preventivamente autorizzati dalle Autorità Sanitarie. Il loro impiego deve essere limitato nel tempo, e gli animali possono essere macellati soltanto dopo che i farmaci sono stati completamente smaltiti dall’animale, ossia dopo il cosiddetto “periodo di sospensione”.
“Gli allevamenti sono responsabili della propagazione dell’epidemia da covid-19”
Ultima bufala in circolazione, ma solo in ordine di tempo: la correlazione tra diffusione del Covid-19 e gli allevamenti intensivi.
Diffusa da alcune associazioni fra il 2020 e il 2021, non solo è priva di ogni fondamento scientifico, ma rischia di sfociare nel procurato allarme pubblico, reato previsto e punibile dal codice penale italiano.
Chi avalla questa tesi lo fa in modo ideologico e speculativo, ignorando il fatto che il salto di specie all’origine dei virus avviene dalla commistione tra animali selvatici, animali domestici e uomo. Gli allevamenti controllati, semmai, sono una vera barriera alla diffusione di virus, in quanto protetti e sottoposti anche a causa di una legislazione particolarmente rigida, soprattutto in Italia, a uno stretto e costante controllo da parte delle autorità competenti.
Sanità animale e biosicurezza sono fra le priorità della moderna zootecnia, per garantire agli animali allevati in ambienti ottimali sotto il profilo del benessere, dei parametri microclimatici e della protezione da agenti esterni potenzialmente pericolosi.